giovedì 28 novembre 2013

Recensione: Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra - Claudia Durastanti

Titolo: Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra
Autrice: Claudia Durastanti
Prezzo: 17.50€
Pagine: 300, brossura
Editore: Marsilio (collana X)

Trama: Trent'anni. Trent'anni di storia americana, trent'anni di sogni e aspirazioni. Di amori, di voli e di cadute. "Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra" è l'epopea cruda, fantastica, umanissima di sei diverse giovinezze, sei modi d'intendere la vita coi suoi dolorosi passaggi epocali. Michael e Jane, Francis e Zelda, Edward e Ginger: storie di incontri e di distacchi, di solitudini forzate che, dal New Jersey degli anni settanta, arrivano a sfiorare la purezza sporca della Manhattan anni novanta. La pop art, la contestazione, la scena punk e il sogno illusorio di una ribellione possibile.

L'autrice: Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984. Il suo primo romanzo, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio 2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani, il Premio Castiglioncello Opera Prima, ed è stato finalista al Premio John Fante. Scrive su «Indieforbunnies» e sul «Mucchio», dove si occupa prevalentemente di cultura pop. Vive a Londra.

Recensione:
Uno dei molteplici modi per parlare dell’America è contenuto nelle pagine maleducate del libro di Claudia Durastanti.  In un lasso di tempo di trent’anni, seguiamo le vicende di Jane e Alexander Cormick, Jonathan Cale, che sceglie di farsi chiamare Francis, Dana Fogarty, nel suo nuovo nome di Zelda, Michael Haskell, Edward Hopper, Ginger Korowie e Frank Riley. Provengono da zone diverse di Manhattan e dal New Jersey, hanno caratteri diversi, famiglie diverse, amici diversi, e ogni tanto sconfinano l’uno nel territorio dell’altro, finendo per intrecciare i propri giorni con qualcuno degli altri personaggi. Sono accomunati, tuttavia, da rabbia e solitudine profonde, che li cala in una realtà di non comunicazione con gli altri, se non tramite l’aggressione, il silenzio, il turpiloquio, l’offerta noncurante del proprio corpo in cambio di birra o droga, il disprezzo per le regole e per la società inscatolatrice di esseri umani tutti uguali, nelle loro confezioni fatte di lavoro-casa-famiglia-soldi-buone-maniere-rispettabilità. Ognuno di questi personaggi, a suo modo, urla contro questo inscatolamento, e reagisce scardinando la confezione già preparata per lui, rifiutando di entrarci, buttandosi a capofitto nei mondi scartati dalla società, fatta di edifici fatiscenti, che affondano nello squallore e nella sporcizia, delle stazioni dei pullman, accartocciati per terra vicino alle bottiglie di birra vuote, rotolando tra gli scarti, godendo di esserlo, e di sbatterlo in faccia a tutti, lettori e spettatori. 
Ho parlato di pagine maleducate, all’inizio. Non certo perché l’autrice manchi di rispetto in alcun modo ai lettori. Il mio uso della parola “maleducato”  deriva dall’impressione generale che mi ha suscitato la lettura del libro: i personaggi parlano, talvolta in prima persona, al di fuori di ogni schema educativo, fatto di repressione dei propri sentimenti (soprattutto quelli peggiori), o di rimozione delle “cose brutte” della vita. Michael Haskell è la prima voce che si fa sentire, nel 1978 a Manhattan, nell’Upper West Side. E’in procinto di scegliere un college adatto a lui, figlio della buona borghesia americana, ricca e a modo, con una bella casa elegante e ordinata. Chiunque ringrazierebbe il cielo di poter vivere in una situazione così, confortato e sostenuto dai soldi di famiglia. Non Michael. Michael odia e prova disgusto per la bellezza da buona società che lo circonda, ironizza e investe di sarcasmo rabbioso i suoi genitori, presenze padrone del campo, ma prive di spessore, lontane e assorte nei propri ruoli. Troppo sulle loro sponde, per sporgersi a guardare nel cuore nero e agitato di un figlio che li guarda con occhi feroci di rifiuto.

"È una cosa che non ho mai sopportato, i tempi lenti e forzati che gli adulti usano come arma pedagogica per costringerti a capitolare e a umiliarti davanti a loro. Come se il valore delle tue scelte o delle tue idee fosse proporzionale alla quantità di merda che sei disposto a ingoiare per difenderle. "

Michael segue il proprio istinto, abbandona la facoltà di sociologia alla Columbia University (scelta completamente a caso), per iscriversi alla School of Visual Arts. La sua rabbia si intreccia al suo talento e alla sua necessità di sputarlo fuori. Anche Jane Cormick, di Freehold, Contea di Monmouth, prende la parola un paio di settimane prima di partire per frequentare giornalismo alla New York University. Non è una giovane di belle speranze, per quanto stia per iniziare una nuova vita. Il suo è il disincanto di chi vuole andare avanti nella vita, sapendo di essere diverso dagli altri, sempre un po’ troppo indietro, o un po’ troppo avanti, mai allo stesso passo di marcia del gruppo. Quando la sua vita s’incontra e si sfibra contro quella di Michael, è l’autrice che si riprende parola e filo narrativo, per incastonare i due ragazzi dritti all’interno delle pieghe più multicolori e meno pulite del grembo di New York. La sua è una macchina da presa, che allarga la prospettiva e ci fa arrivare suoni, rumori, zaffate, odori della vita meno “politcally correct” della Mela del Mondo. Ritorna a tacere e si fa da parte quando, diciotto anni dopo, è la volta di una coppia che si è cambiata il nome: Francis (Jonathan  Cale) e Zelda (Dana Fogarty), da Newark. E’ lei che sceglie di cambiare i loro nomi, per ritornare all’epoca dell’amore ai tempi del jazz, ispirandosi al Grande Gatsby di Fitzgerald. Ma niente lustrini e dolce vita per questi innamorati che stanno insieme, ma non comunicano, hanno gesti di vicinanza, ma non ne parlano. Potrebbero dirsi delle cose, confortarsi con la presenza l’uno dell’altro, ma scelgono di pronunciare altre parole, formando frasi che non hanno senso con quello che vivono, e che comunicano un grande senso di solitudine e inadeguatezza di fronte alla vita.

Lui vide scorrere le immagini, e pensò una serie di cose che non disse ad alta voce.
Per esempio: tu sei il pianoforte inabissato che mi porto dentro al cuore.
Per esempio: tu sei il battito mancato che potrebbe farmi saltare in aria.

Lo squallore delle piccole cose rovinate, della vita di serie C accompagna le voci di questi ragazzi, che forse, un po’ troppo frettolosamente, si possono definire sbandati. Niente sembra poterli convincere a costruirsi una vita “normale”, o anche solo che si avvicini alla suddetta confezione socialmente accettata  lavoro-casa-famiglia-soldi-buone-maniere-rispettabilità. Edward Hopper e Ginger Korowie, che li seguono a ruota, fanno del loro meglio per fare a pezzi la bella confezione sociale. Entrambi pieni di rabbia verso adulti che li hanno umiliati, con coscienza e una leggera soddisfazione maligna, che li porta a vendicarsi di se stessi, ripetendo il ciclo di umiliazioni ogni giorno, buttando in pasto le proprie stranezze eccessive alla cittadina che li osserva schifata e affascinata.  Edward, tuttavia, viene colpito da un impulso improvviso, che lo spinge a dare un’occhiata a quella confezione sociale che ha fatto a brandelli ogni volta che ha potuto. Parte all’improvviso, completamente solo e nudo di competenze, titoli di scuola o mestieri, e va verso sud, fino ad arrivare a Lamesa, New Mexico, dove si trasforma inaspettatamente in un meccanico.  La vita on the road, leggero richiamo a Kerouac, si appunta, per qualche tempo, ad uno spillo dimenticato nel terreno di quello Stato. 

Aveva smesso di scriversi le frasi col pennarello sulla testa, si era rasato anche la parte destra trasformando l’asimmetria dei suoi capelli in una cresta e aveva iniziato a lavarsi perché dopo il lavoro era inevitabile. Restava comunque lontano dalla normalità in modo accettabile. Certe volte si sentiva come sommerso dalla densità del posto, e cercava di non lasciarsi sfuggire niente. Gli piaceva trovarsi in un luogo palesemente senza aspettative, in cui non c’era nessuna aspirazione al miglioramento, la grande maledizione del sogno americano che ossessionava chiunque avesse meno di sessant’anni. L’etica del lavoro, della posizione individuale: sei tanto più onesto quanto più lavori, sei tanto più fico quanto più dimostri di avere fame di successo. Quanto più sei capace di sbranare tutto, di avere sempre qualcosa da dire, di maturare una posizione. E poi c’erano quelli a cui non gliene fregava niente. Niente alternativi a Lamesa, niente rivoluzionari. Il lavoro come strumento per trascorrere le giornate, senza la presunzione di dare loro un significato; il lavoro come qualcosa che ti permette di guadagnare il necessario per mangiare.

Gli anni scorrono verso il 2003, che conclude le vicende dei protagonisti  su una lettera di Michael, il personaggio che apre e chiude il cerchio narrativo.  La rabbia e l’incomprensione dei personaggi da giovani si sono un po’ acquietate. Niente più slanci eclatanti, impulsi di autocelebrazione e di autopunizione. E’ subentrata la stabilità dei trenta-quarant’anni, ma questo non significa necessariamente un miglioramento o un frettoloso “il passato è passato”. Ognuno a suo modo si volta all’indietro e capisce un po’ meglio il baratro della propria vita, per quanto con tristezza e una certa rassegnazione dovuta all’aver perso una serie di occasioni una dietro l’altra. Non sono opportunità lavorative: sono quelle possibilità che la vita offre di essere vissuta e goduta senza rinchiudersi negli assolutismi e nel rifiuto cieco. Sono valide per un certo periodo di tempo, ma se non vengono colte, scadono e non sono rinnovabili. Chiudendo il libro, permane tuttavia la sensazione che forse c’è ancora un residuo di occasione, ma è talmente leggero e sullo sfondo da essere quasi indistinguibile.

Voto:




Cosa ne pensi? Lascia il tuo commento.


2 commenti:

  1. Io ho scoperto, per puro caso – e per grande fortuna, aggiungerei – questa giovane scrittrice col suo secondo romanzo, ovvero: “A Chloe, per le ragioni sbagliate”, che ho a dir poco amato e su cui infatti mi sono dilungata parecchio quando ne ho scritto. Comprandolo alla cieca, ho temuto per un attimo che la Durastanti fosse semplicemente bravissima a trovare titoli affascinanti ed evocativi, timori che son stati spazzati via fin dalle prime pagine; a dispetto di quanti sostengono di non capirla o che il suo modo di scrivere sia bella forma e poco contenuto, a me invece è arrivato ogni singolo messaggio e ogni singola emozione provata dai personaggi. Il suo modo di scrivere e il tipo di storie che racconta mi hanno conquistata senza riserve, tant'è che "Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra" è subito balzato ai primi posti della wishlist. Sono contenta di trovare qui la recensione – bellissima, per altro – di un suo libro, perché merita molta più attenzione da parte dei lettori di quanta ne abbia attualmente.

    yaxelle

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ti assicuro che da parte nostra avrà tutta l'attenzione che merita, difatti mi occuperò personalmente di leggere e recensire anche "A Chloe, per le ragioni sbagliate".
      Come hai detto, i suoi titoli sono bellissimi, ma dopo questa recensione della mia collaboratrice (e dopo il tuo commento) sono ancor più sicuro che il punto forte dei suoi romanzi non risieda solo nella copertina. Del resto, io amo l'America, la sua letteratura e la sua cultura e l'idea di una scrittrice italo-americana che scrive di New York e si occupa di cultura pop è fin troppo allettante.

      Elimina