domenica 29 settembre 2013

Recensione: Sulla strada - Jack Kerouac

Titolo: Sulla strada
Autore: Jack Kerouac
Prezzo: 9.50€
Pagine: 406, brossura
Editore: Mondadori (collana Classici Moderni)

Trama: Sal Paradise, un giovane newyorkese con ambizioni letterarie, incontra Dean Moriarty, un ragazzo dell'Ovest. Uscito dal riformatorio, Dean comincia a girovagare sfidando le regole della vita borghese, sempre alla ricerca di esperienze intense. Dean decide di ripartire per l'Ovest e Sal lo raggiunge; è il primo di una serie di viaggi che imprimono una dimensione nuova alla vita di Sal. La fuga continua di Dean ha in sé una caratteristica eroica, Sal non può fare a meno di ammirarlo, anche quando febbricitante, a Città del Messico, viene abbandonato dall'amico, che torna negli Stati Uniti.

L'autore: Interrotti gli studi universitari, vagabondò per gli Stati Uniti esercitando disparati mestieri – marinaio, frenatore ferroviario, guardia forestale – sulle tracce degli scrittori che amava: J. London, E. Hemingway, Th. Wolfe. Intorno al 1950, conosciuti W.S. Burroughs e A. Ginsberg, praticò con loro, a New York e a San Francisco, quello che divenne il modello di vita della «beat generation»: il nomadismo, il rifiuto dell’opulenza americana, la ricerca di nuove dimensioni visionarie nella droga. Queste esperienze sono descritte nel romanzo Sulla strada (1957), che divenne, per la generazione di Kerouac, una sorta di manifesto, e che resta forse la sua opera più riuscita sia per la novità stilistica (il tentativo di creare una prosa «spontanea», sul modello della libera improvvisazione del jazz) sia per i suggestivi legami col ricorrente mito americano del viaggio. I suoi libri successivi hanno un carattere fortemente autobiografico. I sotterranei (1958), allucinata cronaca poetica della vita dei beat di San Francisco, e I vagabondi del Dharma (1958), documento dell’interesse di Kerouac per le filosofie orientali, ripeterono il successo di Sulla strada. Nel 1961, stanco di essere una figura pubblica, si isolò, seguendo un altro suo modello letterario, il Thoreau di Walden, in una capanna non lontana dalla costa della California, dove compose uno dei suoi romanzi più intensi, dominato da un forte senso musicale della lingua: Big Sur (1962), bilancio di una sconfitta che si riscatta nella novità della scrittura.La stessa libera gioia del ritmo, la stessa sottigliezza nel captare il suono dell’americano parlato in moduli jazzistici si ritrovano nella sua opera poetica, in particolare nei Mexico City blues (1959) mentre nell’ultimo voluminoso romanzo di memoria, Vanità di Duluoz (1968), queste qualità sembrano cedere il passo a una certa stanchezza.

Recensione:
A cura di Laura Pernice
On the road di Jack Kerouac: un cult intramontabile, un mito, un simbolo, una sottospecie di Bibbia per intere generazioni; tutto ciò, mi sono detta, deve pur voler dire qualcosa, e allora leggiamolo! E la scelta è stata più che azzeccata.
Adesso, onde apparire eccessivamente ruffiana nel mio essere andata letteralmente in brodo di giuggiole per questo libro, preciso sin da subito che io, ormai da parecchio, ho sviluppato una sorta di venerazione per buona parte della letteratura americana postmoderna. Per me era necessario, quantunque non fosse già stato nella mia wishlist da tantissimo tempo, leggerlo e farmi un’idea più precisa, più chiara e netta, di cos'è stato il movimento della beat generation e di quali strabilianti conseguenze esso ha avuto nella morale e nei costumi della società americana del secondo dopoguerra.
E così una sera d’estate, appena rientrata da un viaggio bellissimo e già sommersa di nostalgia, per di più immobilizzata a letto con una distorsione al piede destro e un trauma alla caviglia sinistra (tasso di sfiga registrato: 100%), insomma, nel momento scientificamente peggiore per leggere di viaggi e pazze avventure in giro per l’America, ho preso in mano On the road e mi sono lasciata trasportare dal suo vortice di parole. La situazione di partenza era pessima , eppure l’effetto finale è stato quello di un balsamo sulle mie ferite.
Kerouac è riuscito a farmi viaggiare con la mente in maniera altrettanto forte e intensa di un viaggio reale, e per una che ama viaggiare e “perdere paesi”, come ha cantato Pessoa, ottenere questo  attraverso la lettura di un libro è qualcosa di veramente straordinario. 
Leggere On the road è stato come fare un sogno, un lungo sogno letterario attraverso il continente americano. La trama è semplicissima e, tirando le somme a lettura ultimata, mi sono resa conto che non è la cosa più importante. Con questo non voglio dire che le azioni, gli accadimenti, ciò che i personaggi fanno o ciò che dicono, non abbia alcun significato; semplicemente che ciò che resta, giunti in fondo alle oltre trecento pagine,  non è tanto quel che si è letto, quanto quel che si è provato leggendolo e, naturalmente (forse è pure superfluo dirlo), è proprio questo che fa di On the road un autentico capolavoro.
Ma torniamo alla trama: la storia è ispirata ai viaggi che Jack Kerouac ha fatto insieme all’amico, anch’egli scrittore, Neal Cassady,  tra l’estate del 1947 e l’inverno del 1950. On the road quindi è fondamentalmente un testo autobiografico, che Kerouac iniziò a scrivere nel 1951 quando appunto da quei viaggi era appena tornato, portando con  sé diversi taccuini contenenti un mucchio di appunti e pensieri scritti durante il percorso. Fu allora che, armato di un rotolo di carta lungo trentasei metri, che aveva inserito nella sua macchina da scrivere per non dover perdere tempo a cambiar pagina quando finiva il foglio, sistematizzò di getto gli appunti che, di lì a poco, sarebbero diventati il suo capolavoro, rievocando e nel contempo romanzando, le folli avventure dei suoi lunghi vagabondaggi su e giù (o per meglio dire a sinistra e a destra!) del grande continente americano.
Il protagonista e voce narrante del libro, alter ego letterario dello stesso Kerouac, è Sal Paradiso, uno squattrinato aspirante scrittore che vive a New York insieme alla zia e sogna da tempo di andare nell’Ovest, in cerca di avventure e  nuovi incontri. Già nella prima mezza pagina egli ci mette a parte, con sorprendente incisività, della sua situazione “di partenza”, all’alba dell’incontro che gli avrebbe cambiato la vita con il carismatico Dean Moriarty, infondo vero protagonista di tutta la storia. Se Sal Paradiso rappresenta lo stesso Jack Kerouac, il personaggio di Dean Moriarty invece è direttamente ispirato a Neal Cassady, che a quanto pare nella vita reale esercitò su Kerouac la stessa “influenza malefica” che Dean ha nei confronti di Sal.
Difatti, se On the road è stato acclamato per decenni come il manifesto della beat generation è perché i suoi protagonisti ne sono i perfetti prototipi, o meglio, i suoi veri iniziatori: coloro che per primi hanno sperimentato cosa volesse dire “bruciare” nell’America degli anni ’40 e ‘50. E infondo questo voleva dire semplicemente sentirsi sbagliati, sentirsi incompresi, provare la vertiginosa sensazione di camminare, o meglio sbandare pericolosamente, sull’orlo di quella voragine aperta delle due guerre mondiali. Una voragine che col tempo divenuta un abisso, in cui si erano dispersi (o forse uccisi per sempre) i valori morali, le tradizioni antiche, i miti trascendenti, i punti di riferimento politici, sociali, religiosi.
Allora quella della gioventù bruciata è soprattutto una ricerca, una ricerca di ciò che si è perduto e che si sente il bisogno di ritrovare, anche a costo di cercarlo lontano dagli altri e lontano da sé, fuggendo da quella società massificata e borghese creata a tavolino dal boom economico post-bellico.

Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare.

Nel romanzo di Kerouac la ricerca e la fuga si intrecciano senza che l’una possa veramente essere disgiunta dall’altra, sono un tutt’uno compatto, un sistema in cui si integrano e si completano a vicenda.
Esattamente come si completano a vicenda Sal e Dean, apparentemente molto diversi, in realtà intrinsecamente uguali; essi non hanno bisogno di sapere cosa stanno cercando per sentire l’urgenza di andare, semplicemente percepiscono dentro di sé che quello che cercano non è là dove si trovano, che devono muoversi, macinare chilometri e lasciarsi andare alla strada, e che lei, la strada appunto, li saprà condurre dove devono arrivare.
La strada è allora un richiamo, uno stimolo, una fame, quasi un necessità di forza maggiore, e insieme una guida, un tracciato sicuro da percorre e ripercorrere fino a quando non si è sfiniti, fino a quando non si è visto e fatto tutto quello che essa può offrire.
Così è per Sal, ma specialmente per Dean.
Riflettendo infatti, mi sono resa conto che Sal probabilmente non sarebbe mai partito se non fosse inciampato in quella forza della natura che è Dean, come lo definisce egli stesso la prima volta che lo incontra “un eroe con le basette nel nevoso West”. In realtà Dean è distante anni luce dal concetto classico di eroe, il suo eroismo, se di eroismo si può parlare, sta nella sua tormentata frenesia, nella sua inesauribile sete di vita, nella sua disperata, lucida e ostinata fede in un dio senza nome.   Egli è cresciuto praticamente da solo, non ha conosciuto la madre e il padre, vagabondo e alcolizzato, non è mai stato presente nella sua vita.
Eppure Dean lo cerca, va nei bassifondi di Denver e tenta di riacciuffare il suo passato, di percepire l’eco distante delle sue radici.
Sal lo segue, non può farne a meno. Beve le sue parole come quelle di un profeta, prende le sue difese contro tutto e contro tutti e gli da ciecamente ragione.
Inizialmente, questo suo atteggiamento potrebbe irritare, a volte io stessa l’ho trovato fastidioso, ma poi ho capito che il tutto serve a enfatizzare l’aura mistica di Dean, l’energia vitale e la forza di persuasione che irradiano dal suo personaggio.
È lui il motore del libro e la cosa fantastica è che lo si può  tranquillamente amare e odiare nello stesso momento, o amare e odiare alternativamente nello spazio di una pagina. Insomma, è un personaggio talmente eclettico e multisfaccettato che non ha fatto fatica a imprimersi in maniera indelebile nella mia memoria di lettrice.
E comunque, tanto per la cronaca, io l’ho amato del primo istante!
Altro elemento di assoluto fascino nel libro di Kerouac sono i landscapes della grande, immensa, America.
I misteriosi spazi aperti, le sconfinate praterie, i fiumi, i canyon, le montagne incappucciate di neve e i campi di frumento dorati dal sole. Wyoming, Nebraska, Mississippi, Ohio, e ancora Louisiana, Texas, Colorado, California e tanti altri… Quasi tutti gli stati americani scorrono sulle pagine di On the road, disegnando un collage fittissimo di ambienti, panorami, schegge di spazio e frammenti di vita colti attraverso il finestrino di un’automobile spinta incessantemente avanti. Fino a quando anche l’ America non basterà più, e allora arriveranno le polverose strade del Messico, sognando l’Italia e il vecchio continente.
E negli immensi spazi percorsi lungo il viaggio è vasta e variopinta l’umanità con cui Sal e Dean intrecciano, nell’arco di variabili porzioni di tempo, il loro errante cammino. Agli amici di vecchia data, come Carlo Marx (personaggio ispirato ad Allen Ginsberg, venerato poeta beat amico di Kerouac), si aggiungono le nuove conoscenze nate lungo la strada e le ragazze, le tante ragazze, amate, sedotte e abbandonate o semplicemente desiderate con struggente ardore.
Nel loro rapporto con le donne però, Sal e Dean sono molto diversi. Se il primo cerca e desidera teneramente un legame affettivo che lo faccia sentire meno solo, l’altro invece rifugge qualsivoglia relazione stabile e intreccia complicati equilibrismi amorosi con due donne contemporaneamente: Marylou a Denver, Camille a San Francisco.
Ma infondo anche Dean non può essere giudicato, o almeno non con le categorie dell’etica comune, perché far parte della beat generation significava essere degli outsiders, vivere ai margini della civiltà democratica di massa e della cultura conformista, cercando di sostituire alle sue leggi e ai suoi rigidi codici morali un filosofia di vita più libera e essenzialmente meno autopunitiva.
Semplificando un po’, forse si potrebbe parlare di una filosofia del “vivi e lascia vivere”, ma la loro logica è certamente più articolata e più stringente di questa.
Alla base di tutto comunque, c’è soprattutto un’ avidità di vita fuori dal comune.
A questo punto probabilmente, qualcuno potrebbe obbiettare che infondo tutti i giovani, in tutte le epoche, sono stati così, affamati di vita, desiderosi di nuove esperienze; eppure c’è qualcosa nell’adrenalina dei personaggi di On the road che va oltre questo, che si  manifesta come un istinto di esplosione e di fusione nel mondo e col mondo, come l’ardente slancio di chi sente che letteralmente sta bruciando di vita, e che nel suo rogo, infondo, sta la sua vera salvezza, come scrive Kerouac “il fondamento della Beatitudine”.
Certo parliamo di una “beatitudine” non da intendersi in senso tradizionalmente religioso.
Il problema della fede è costantemente presente nel libro, ma alla fine la sola conclusione a cui si riesce ad arrivare è la volontà di credere in un’energia trascendente che infondo si identifica con la vita stessa, e si manifesta con la piena e libera espressione della personalità umana. I mezzi per questa espressione sono la droga, l’alcool (tanto alcool!), il sesso promiscuo, l’esaltazione musicale raggiunta attraverso i ritmi ossessivi e selvaggi del jazz e del be-bop. Una miscela esplosiva a cui si ricorre per sganciarsi dalla realtà, per non sentire la mediocrità e il fallimento di un’ America intollerante, razzista e classista, soffocata e moribonda sotto una stucchevole patina di perbenismo borghese.
Il merito di Kerouac è di riuscire ad immergerci perfettamente, con una scrittura torrenziale, magmatica come lava bollente, nella dimensione febbrile e bruciante di quegli anni. 
L’effetto su di me è stato quello di un crescente coinvolgimento emotivo; le descrizioni di paesaggi, personaggi e situazioni sono così dettagliate, così “a fuoco”, che alla fine ti senti totalmente parte della storia, anche tu lanciato come una freccia lungo le highways dell’ America e del Messico.
Alla fine del viaggio ero cotta a puntino, totalmente falled in love per questo libro! E, sinceramente, me ne infischio di chi dice che la beat generation è ormai finita, morta e sepolta.
On the road non parla soltanto di quella generazione, sarebbe assurdo ascrivere il bisogno di vita autentica, il desiderio di libertà pura, solo agli scrittori e agli artisti beat. Stiamo parlando di qualcosa di assolutamente universale e nello stesso tempo di contingente, avvertito dai ragazzi di tutte le epoche, ma declinato poi in maniera diversa.
Infondo Kerouac ha raccontato una storia in cui tutti potremmo immedesimarci: chi non ha mai sognato, almeno una volta nella vita, di lasciarsi tutto alle spalle e semplicemente andare? Ciascuno di noi, prima o poi, è stato preda dell’inquietudine, e a volte non serve neanche avere una ragione precisa per intraprendere un viaggio, per cercare, perdendosi nel mondo, di trovare sé stessi, prima che tutto si spenga nel “desolato stillicidio del diventar vecchi”.

“Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo”
“Per andar dove, amico mio?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare”.


Voto:

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9 commenti:

  1. "Voglio una persona con cui riposare l’anima
    e invecchiare dolcemente. "

    E' una delle mie frasi preferite :)

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  2. L'ho letto molto tempo fa e la tua recensione, oltre ad essere davvero accurata, mi ha riportato alla memoria tutte ciò che ho amato di questo libro. Devo assolutamente leggere anche altro di Kerouac.
    Il film, invece, non mi è proprio piaciuto.

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    1. Ciao, innanzitutto ti ringrazio..:) per quanto riguarda il film anche a me non è piaciuto particolarmente (la presenza-mummia di Kristen Stewart era di per se insopportabile!), però devo riconoscere che non era facile fare un film su questo romanzo. Se ci fai caso il libro è molto "magmatico", non ha un centro ben preciso, la storia si snoda nell'arco di diversi anni ma senza molto continuità.. dev'essere stato arduo ricavarne una sceneggiatura per il grande schermo! almeno questo dobbiamo riconoscerglielo!;)

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    2. Sì, la Stewart è davvero insopportabile. Sarebbe carino sentire il tuo parere completo sul film, magari tramite un post sull'argomento. :)

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    3. certo, perchè no!!:)) è sempre una figata (almeno dal mio modesto punto di vista) vedere un film dopo aver letto il libro e scovare tutte le relazioni (nevative così come positive) che si instaurano tra i due!

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  3. Hai colto nel segno...Non penso possa esistere persona che non abbia mai almeno fantasticato sul mettere in pratica una cosa del genere...
    Ottima recensione!
    Mi pento di non averlo ancora letto...

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    1. ti ringrazio!!! :D eh già, io almeno mi sono immedesimata moltissimo..sarà perchè sono una viaggiatrice incallita, ma poi in questo caso stiamo parlando di un viaggio attraverso tutta l'America!!!*_*

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    2. Infatti! :) Comunque appena finirò l'abbuffata bukowskiana mi fionderò su questo!

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  4. Appena finito di leggere questo meraviglioso libro che mi ha lasciato davvero tanta amarezza nelle sue ultime pagine. Ho letto con piacere la tua recensione, è davvero interessante! Per quanto mi riguarda mi trovo d'accordo con te sul personaggio di Dean...lo si ama e lo si odia allo stesso tempo! Ma non ho potuto fare a meno di "preferire" Sal, forse perché mi si avvicina di più nel suo essere osservatore attento e quasi più uno spettatore di fronte alle follie di Dean...Forse perché ho sempre amato il binomio viaggio/taccuino...un bacio e buone letture ;-)

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