domenica 8 settembre 2013

Recensione: La piramide del caffè - Nicola Lecca

Titolo: La piramide del caffé
Autore: Nicola Lecca
Prezzo: 17.00€
Dati: 2012,233p.,brossura
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)


Trama:
A diciotto anni, Imi ha finalmente realizzato il suo sogno di vivere a Londra. A bordo di un vecchio treno malandato ha lasciato l'orfanotrofio ungherese dove ha sempre vissuto e, nella metropoli inglese, si è impiegato in una caffetteria della catena Proper Coffee. Il suo sguardo è puro, ingenuo e pieno di entusiasmo: come gli altri orfani del villaggio di Landor, anche lui non permette mai al passato di rattristarlo, né si preoccupa troppo di ciò che il futuro potrebbe riservargli. Le tante e minuziose regole che disciplinano la vita all'interno della caffetteria - riassunte nel Manuale del caffè cui i dirigenti della Proper Coffee alludono con la deferenza riservata ai testi sacri - gli sembrano scritte da mani capaci di individuare in anticipo la soluzione a qualsiasi problema pur di garantire il completo benessere di impiegati e clienti. La piramide gerarchica che ordina la Proper Coffee sembra a Imi assai più chiara e rassicurante del complesso reticolo di strade londinesi. Dovrà passare molto tempo prima che Imi - grazie al cinismo di un collega e ai consigli della sua padrona di casa - cominci a capire la durezza di Londra e la strategia delle regole riassunte nel Manuale del caffè. Tanto candore finirà per metterlo in pericolo: e sarà allora Morgan, il libraio iraniano, a prendersi a cuore il destino di Imi, coinvolgendo nel progetto Margaret, una grande scrittrice anziana e ormai stanca di tutto, ma ancora capace di appassionarsi alle piccole storie nascoste tra le pieghe della vita.

L'autore:

Scrittore nomade che ha abitato a lungo a Reykjavík, Visby, Barcellona, Venezia, Londra, Vienna e Innsbruck.
La sua raccolta di racconti "Concerti senza Orchestra" (Marsilio 1999) è stata finalista del premio Strega.
All'età di ventisette anni ha ricevuto il premio Hemingway per la letteratura.
Ha scritto, fra l'altro: "Ritratto Notturno" (Marsilio 2000), "Ho visto Tutto" (Marsilio 2003), "Hotel Borg" (Mondadori 2006), "Ghiacciofuoco" (Marsilio 2007), "Il corpo odiato" (Mondadori 2009), "La piramide del caffè" (2013).
I suoi saggi filosofici "L'amore perduto per l'attesa" e "Di quasi tutto non ci accorgiamo" sono stati pubblicati in olandese dal Nexus Instituut di Tilburg.
Le sue opere sono presenti in quindici Paesi europei.

Recensione:

Il più grande privilegio, in questo mondo gelido e senza speranze, è quello di riuscire a scatenare una scintilla: un’emozione capace di far battere forte il cuore. 

Se c’è una cosa da cui noi italiani siamo ossessionati è il caffè. In Inghilterra le tisane vanno per la maggiore, in America ci sono le miscele targate Starbucks, ma è qui nel Bel Paese, specialmente al Sud, che il caffè diventa una sorta di divinità in tazza. Pensateci, qual è la prima cosa che si dice ad un ospite, prima di farlo accomodare e subito dopo i saluti di circostanza? “Ti preparo un caffè?” .
E guai a dire di no.
Qui la tazza di caffè è custode dei pettegolezzi più succosi, ancora di salvataggio nelle giornate più uggiose, contenitore di fresche speranze mattutine e, per quanto mi riguarda, compagna fedele nelle fredde nottate di studio intenso. Ho imparato anche a riconoscere chi ho di fronte dal tipo di caffè che beve più spesso: io, ad esempio, non amo il caffè amaro e molto concentrato, sono sempre alla ricerca dei piccoli piaceri della quotidianità (questo concetto ricorrerà spesso nella recensione a seguire), difatti, specialmente d’inverno, ingurgito dosi aziendali di cappuccino tanto schiumoso e ben zuccherato. Il cappuccino è la nota che aggiusta la melodia, quell’abbraccio caldo che ti dice “Stai tranquillo, andrà tutto bene”.
Ecco perché non ho saputo resistere all’accattivante titolo dell’ultimo romanzo di Nicola Lecca, La piramide del caffè. Per non parlare della meravigliosa copertina: vecchi libri, una bella tazza colorata e un paio di baffi. Sembra un’immagine presa da Tumblr.
E poi sì, devo dire che questo libro per certi versi somiglia ad un buon cappuccino.
La dolcezza c’è, e vi è anche quell’effetto da “caldo abbraccio” di cui parlavo sopra, e sono questi elementi a renderlo una sorta di favola postmoderna carica di ottimismo, nonostante, a saper guardare bene, l’autore non si astenga dal lasciare un certo retrogusto amaro, il tagliente spaccato di una società globalizzata dove spesso l’individuo è alla ricerca di una felicità lontana e alienante, che lo spinge a perdere non solo la capacità di stupirsi per le piccole cose, ma anche la sua stessa identità.


Caro Imi, benvenuto nella città degli orfani. 

La città degli orfani in questo romanzo è la multietnica capitale britannica, Londra, che qui vediamo inizialmente filtrata dagli occhi del protagonista Imi, un diciottenne che al compimento della maggiore età lascia l’orfanotrofio ungherese in cui è cresciuto per inseguire il sogno della grande città. Imi è un personaggio puro, candido, ricolmo di speranza e aspettative, nonostante la vita lo abbia privato di molte cose, prima fra tutte l’affetto di una vera madre. Cresciuto tra le cure delle neni – questo il nome delle donne che si occupano dei bambini nell’orfanatrofio – Imi è fondamentalmente una persona felice, i suoi occhi luccicano alla sola vista dei grandi grattacieli londinesi e riesce a svolgere con passione ed allegria anche l’umile lavoro di dipendente della Proper Coffee, una grande catena di caffetterie che mette a disposizione dei lavoratori un Manuale, tipicamente inglese, che regola per filo e per segno il comportamento di ogni dipendente della multinazionale.

In un Paese in cui tutto avviene secondo regole e manuali che elencano le possibilità A, B, C e D, un ragazzo arguto come Imi è prezioso: perché ha la prontezza necessaria a risolvere anche i casi E, F e G, e cioè tutti quelli che nessun manuale riuscirà mai a contemplare. 

Ben presto, però, alcuni personaggi secondari aiuteranno Imi a capire i sottili inganni e le furberie di un’azienda così allargata, e potente sempre alla ricerca di trarre il massimo guadagno, dove il singolo cliente perde la sua individualità e diventa un numero da inserire in grafici e statistiche, e ancora più il dipendente non è più un Uomo, bensì il minuscolo ingranaggio di un’enorme catena di montaggio nel quale tutti devono attenersi alle regole del Manuale, spesso mettendo in primo piano la produttività allo stesso rapporto col cliente. 
Così, accanto al luminoso ritratto della Londra dei sogni del giovane orfanello, si accosterà quello di una città meno idealizzata, fredda e aggrappata alla logica capitalistica occidentale. Importante è, in questo contesto, la moltitudine di caratteri che costellerà la vicenda di Imi, caratteri ai quali vengono affidate poche frasi, spesso anche brevi, piccoli capitoli di una o qualche pagina. L’autore non si concentra troppo sull’analisi psicologica, la maggior parte dei personaggi è quasi solo abbozzata, come se volesse semplicemente accostare accanto alla descrizione di un’azienda che vuole rendere i suoi dipendenti tutti uguali privandoli della loro componente individuale il più verosimile esempio di umanità: diversa, variegata, e con tanti differenti modi di approcciarsi alla non sempre felice quotidianità. Ad esempio c’è Lynne, buona, solare, eccentrica, e capace, grazie alla sua spontaneità, di scaldare anche il freddo cuore della diffidente vicina di casa, schiva, diffidente, impaurita dal diverso e sempre chiusa in se stessa. Poi ci sono Victoria e Andrew, i dirigenti della caffetteria in cui lavora Imi, interessati solo a vincere il viaggio che la Proper Coffee mette in palio ogni anno, vuoti, freddi, le loro figure appaiono grigie, degradate, squallide, annichilite, private di qualsiasi scintilla di calore, ripongono le loro speranze in sogni vaghi e lontani da cui poi rimangono irrimediabilmente delusi, incapaci di applicare quella regola che, alla fine della fiera, sembra essere la chiave di volta dell’intero romanzo, l’unico vero trucchetto scaccia-crisi: essere felici per le piccole cose, essere felice nel presente. 

I desideri sono ossigeno per il futuro, ma è il presente l’unico istante in cui è possibile essere felici per davvero. Rimpiangere quel che è stato o preoccuparsi di ciò che ancora non è accaduto è faticoso per l’anima: la sfinisce. 

Accanto alle vicende londinesi, infatti, Nicola Lecca ci parla dell’orfanatrofio di Landor, dove è cresciuto Imi, e dei piccoli ospiti che vi vivono all’interno, bambini che spesso si portano dietro veri e propri drammi famigliari, che sono stati abbandonati dai loro genitori e che non hanno niente e nessuno se non le cure delle amorevoli neni, qualche rara barretta di cioccolata e, magari, qualche piccolo animale domestico da barattare in cambio di un po’ di shampoo al chewing-gum. Eppure sono bambini felici perché, come dice l’autore, stesso, la felicità non dipende tanto da ciò che si possiede, ma dal sapersi rassegnare a ciò che non si ha. Difatti Imi non ha nulla, ma riesce a infilare della felicità anche nel più semplice dei gesti, il fatto che il suo cappuccino sia più buono degli altri è molto metaforico, e i clienti vogliono che sia proprio lui a servirli perché bramano quel pizzico di felicità giornaliera, ed ecco perché questo spaventa le fredde logiche aziendali: in un mondo dove i cappuccini sono tutti uguali non c’è spazio per essere se stessi, non c’è spazio per la felicità. 
Molto interessante è soprattutto il personaggio di Margaret Marshall, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura, solitaria, sconfortata dal presente, stanca di lottare, ancorata al passato e ai suoi amati libri, solo alla fine del romanzo ritroverà un motivo per riprendere in mano il suo abito più bello e indossare i panni della perfetta fata madrina delle fiabe, piegando al potere della letteratura anche il direttore di una grande e ricca multinazionale e restituendo, così, giustizia ai più deboli.  
Nicola Lecca, con uno stile lineare, pacato e scorrevole e spesso ingiustificatamente sovrabbondate di “” chiude il cerchio con un finale un po’ telefonato, un po’ buonista, ma perfettamente in linea con l’atmosfera dell’intero racconto. Di questi tempi disperati l’autore de La piramide del caffè punta sulla scelta più coraggiosa di tutte: donare un concentrato di speranza in poche pagine, proprio come quella modesta tazza di caffè di prima mattina, proprio come quel caldo cappuccino sorseggiato mentre fuori imperversa la tempesta.


Perché la speranza è forte: una droga innocua e potente capace di vincere sempre e comunque su tutto. Anche sulla disperazione.


Voto:


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3 commenti:

  1. Avevo già adocchiato questo romanzo e la prima cosa che mi era venuta fu "Che cariiiiino". La copertina, il titolo e la quarta ispirano molta dolcezza. Sono felice che, però, vi sia anche una critica alla società contemporanea.
    Lo leggerò sicuramente, grazie del consiglio.

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  2. Sono finita qui per caso....e nel leggere un po' l'articolo mi sono accorta che "Trama" e "L'autore" sono identici! Magari è stato fatto apposta, se così fosse cancella pure il commento ;)
    Bel blog comunque!

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